Riceviamo e pubblichiamo la recensione del prof. Francesco Venuti, storico di Prato, al libro “LA MEMORIA LEGATA AL FILO ROSSO” di Orlando Materassi e Silvia Pascale
LA CATTURA E LA DEPORTAZIONE
Mi sono imbattuto nel racconto di Elio Materassi diversi anni fa, quando già da qualche tempo mi occupavo della storia degli Internati Militari Italiani, attratto dal ricco materiale documentario presente nell’archivio della Associazione Nazionale Combattenti e Reduci della Federazione di Prato.
La biografia di Elio durante il servizio militare è quella di centinaia di migliaia di soldati italiani colti impreparati dall’armistizio del 3 settembre 1943, e dopo l’8 settembre abbandonati a sé stessi proprio quando quella parte di Italia non ancora liberata è invasa dalle forze armate tedesche non più in veste di alleate ma di nemiche, alle quali tuttavia il fuggiasco governo Badoglio dichiarerà guerra solo il 13 ottobre 1943. Arruolato nell’89° Reggimento di fanteria, che il 9 settembre riceve l’ordine di occupare i punti nevralgici della città di Milano (la stazione ferroviaria, le poste, la sede della radio e dei telefoni) e di rispondere con le armi ad eventuali attacchi da parte delle truppe tedesche per impedire il loro ingresso in città, Elio, dopo due giorni di appostamento, è costretto, insieme ai commilitoni, a rimanere consegnato in caserma, su ordine del comandante della piazza militare di Milano, generale Vittorio Ruggero, che così si rende corresponsabile della occupazione della città da parte dei tedeschi e della resa italiana. Il 13 settembre i soldati italiani catturati iniziano la lunga e penosa odissea di deportazione e internamento, che Elio narrerà nel suo diario «Quarantaquattro mesi di vita militare. Diario di guerra e di prigionia», compilato sulla base del ricordo del suo vissuto, in particolare nello Stalag X B nei pressi di Sandbostel, nella Bassa Sassonia.
LA VICENDA DEGLI IMI
Quando ho iniziato ad occuparmi degli Imi, gli storici italiani e stranieri avevano ormai da diversi anni intrapreso il lavoro di ricerca per colmare l’immane “vuoto di memoria” intorno ad essi e il silenzio che ne aveva accompagnato la vicenda, sia nell’esperienza atroce della prigionia sia nella difficile sopravvivenza, nel corso degli anni postbellici, all’interno del perimetro di una società e di un’opinione pubblica tesa a dimenticare gli orrori della guerra insieme alle sue vittime. Le stesse autorità nazionali si interessarono di questi soldati con leggi inadeguate negli anni Cinquanta e poi, a distanza di oltre trent’anni dalla fine della guerra, quando nel 1977 essi saranno equiparati ai partigiani grazie al conferimento del titolo di Volontari della Libertà in quanto riconosciuti come “resistenti senz’armi” e nel 1983 otterranno il brevetto di Combattenti per la Libertà d’Italia. Nel 1998 l’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, motu proprio, conferirà loro la Medaglia d’oro all’Internato Ignoto con la seguente motivazione: «Sottoposto a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai, non venne mai meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua Patria un giorno avrebbe riconquistato la propria dignità di nazione libera».
Dunque, dopo molto tempo, quando parecchi sopravvissuti al lager saranno deceduti, vittime anche dell’oblio e della rimozione, come pratica diffusa di una società schiacciata sull’immediatezza del presente, si comincia a scoprire il valore del loro sacrificio. La cancellazione della memoria era divenuta per decenni una sorta di parola d’ordine che coinvolgeva anche i nuovi governi repubblicani nati dalla Resistenza: sembrava che fosse stato stipulato un tacito accordo tra partiti politici, rappresentanze istituzionali, vari poteri pubblici, per eliminare dalla coscienza la lunga notte del fascismo e della guerra, oltre che l’esperienza atroce dell’occupazione nazista del nostro territorio e in tal modo insabbiare il ricordo del disastro della società italiana dopo l’otto settembre. Perfino le Forze Armate della Repubblica, ricostituite nel clima della democrazia antifascista e partecipi nel periodo bellico della guerra di Liberazione, sembravano avere steso un velo su quanto era accaduto ad una massa sterminata di soldati ingannati dai nazifascisti, abbandonati dagli alti comandi e dal governo del Sud nelle mani del nemico e dimenticati nei luoghi di prigionia e di morte dell’universo concentrazionario del Terzo Reich.
IL SIGNIFICATO DELLA MEMORIA
La storia narrata da Elio nel suo diario, come molte altre storie fondate su esperienze traumatiche e di sofferenza ed esposte come se facessero parte di una pacata conversazione tra il testimone e l’ascoltatore, soggiace di necessità ad un’operazione che potremmo chiamare “aggiustamento della memoria”. Accade questo: soprattutto in presenza di un ricordo che suscita sofferenze patite nella profondità del proprio essere, l’aggiustamento può condurre inconsapevolmente il narratore a lenire le ferite o a nascondere il trauma, tanto più quando l’esperienza vissuta è immersa in una vicenda storica di più ampia portata. Nel nostro caso si tratta comunque di una narrazione schietta e sincera, sostenuta dall’uso frequente del tempo presente per dare immediato risalto all’azione e la presa di distanza dagli eventi risulta pienamente adatta ad aggiungere un mattone all’edificio faticosamente costruito della memoria storica della deportazione di 650.000 soldati italiani nei campi di concentramento del III Reich. Nel corso del suo diario Elio ha mostrato di possedere la consapevolezza che l’imponente esperienza collettiva della deportazione e della prigionia non è riducibile alla propria esperienza singola e d’altra parte che quella porzione della sua vita, per quanto radicata nel ricordo, non esaurisce la gamma del proprio vissuto nella sua vita privata (figlio, marito, padre e nonno), nelle sue attività lavorative e ricreative, nel suo impegno civile esplicati nella quotidianità. Tuttavia, l’impressione che questo attraversamento di una realtà ben più ampia e particolarmente traumatica, abbia costituito un punto di riferimento centrale, un asse portante della sua vita, si rafforza via via che si dispiega la sua narrazione, fino a conquistare la certezza che esiste una singolarità irriducibile della propria esperienza, che incarnata nel proprio essere diviene fonte insostituibile di memoria storica, non passibile di oblio o, peggio, di rimozione.
TRA MEMORIA DEL PASSATO E IMMAGINAZIONE DEL FUTURO
Come per la Shoah, tra pochi anni non ci sarà più nessuno a tramandare quanto è accaduto ai soldati deportati nei lager. Come sostenuto da Anna Maria Casavola, della redazione di “Noi del Lager”, relativamente alla vicenda dell’internamento degli italiani, ai fini della trasmissione della memoria, non ha aiutato la convinzione delle stesse vittime, alimentata dalle condizioni storiche e sociali che abbiamo cercato di descrivere in precedenza, «… che la loro fosse un’esperienza difficilmente comunicabile ad altri e che c’era il rischio di una banalizzazione, o peggio dell’uso strumentale della loro memoria, per fini impropri, politici o comunque personalistici … per gli internati … ha pesato negli anni più che il ricordo del lager, per quanto durissimo, il ricordo amaro del ritorno, allorché si accorsero che il Paese, la Patria non li capiva ed era diventata estranea se non ostile». Il silenzio fu dunque la loro scelta obbligata, dato che, come attesta Silvia stessa in questo splendido libro «… fu il silenzio il tratto dominante, il basso continuo che li accompagnò nella scoperta del nuovo Paese che si stava ricostruendo. Era il silenzio dei giornali, delle istituzioni, persino delle carte geografiche sulle quali non comparivano i nomi dei luoghi di internamento. Proprio il silenzio delle istituzioni fu una spinta decisiva affinché i reduci si chiudessero in sé stessi», perpetuando una condizione di perenne marginalità.
Eppure, partendo dal “NO!” al nazifascismo e alla guerra da esso voluta, come impennata di dignità, il percorso di Elio sia nella sua vita privata che nell’impegno pubblico è animato dalla volontà di riscatto, dal rifiuto del vittimismo e dall’esercizio della solidarietà, «sentimento di solidarietà – scrive il figlio Orlando – trasformato in stile di vita e trasmesso a me e ai suoi nipoti». Non a caso, lo statuto della stessa associazione dell’ANEI così recita all’art. 4: «L’associazione, nell’esplicazione dei suoi compiti, si ispira a principi di fraterna solidarietà con le associazioni affini, anche sul piano internazionale». Una risposta forte e convinta agli aguzzini intenzionati a deprivare le vittime della loro dimensione umana, tramite la fame e le malattie, le prepotenze e le atrocità dei carcerieri tedeschi, il lavoro massacrante, il freddo, la lontananza dalla famiglia e la separazione dall’ambiente di origine, l’assenza di comunicazione con l’esterno, il disprezzo e l’accusa ripetuta di “tradimento”: una «prolungata esistenza di morir vivendo», secondo l’espressione dello studioso delle istituzioni totali, Erving Goffman.
IL FILO ROSSO DELLA RICONCILIAZIONE
La narrazione delle circostanze di vita di Elio, unitamente alla custodia e alla trasmissione della memoria, ha il compito di costruire quelli che Silvia definisce «ponti di Riconciliazione». Essi non possono certo prescindere dal patrimonio memoriale. E già questo è un compito particolarmente arduo in un presente caratterizzato dalla dilagante tendenza alla rimozione, come strategia sistematica tesa a diluire la densità degli avvenimenti in un brodo indifferenziato e anonimo, ad annichilire la specificità degli eventi nell’indifferenza e nell’appiattimento dei significati, a cancellare, infine, quell’unicità irripetibile della sofferenza vissuta. La pianificazione martellante della strategia del potere, a partire da quello mediatico, è talmente ossessiva da non concederci mai quel silenzio necessario per ascoltare la voce dell’autenticità.
Ma l’impresa appare ancora più difficile se in aggiunta si pensa al riassetto dell’ordine europeo dopo il 1989, con la fine della Guerra Fredda, come risultato di un aspro confronto per la ridefinizione delle coordinate della memoria pubblica e istituzionale che ha investito tutta l’Europa. Nuovi paradigmi di memoria sono subentrati a quelli elaborati dopo la fine della Seconda guerra mondiale: quello antifascista ha subito un costante processo di critica e di erosione e al suo posto si è andato affermando un paradigma fondato sull’anti totalitarismo, al centro del quale si trova la figura della vittima, che ha sostituito progressivamente quello del combattente antifascista. L’antifascismo, che è stato il momento più alto, di tensione ideale e morale che l’Italia repubblicana abbia mai vissuto, ha subito una strumentalizzazione che lo ha svuotato del suo significato dato che, come sostenuto da Anna Foa, «… la rimozione e la cancellazione del passato sono tra le tendenze italiane più diffuse, quasi una sorta di caratteristica nazionale». Ed è proprio per opporsi a questa tendenza che Silvia ha programmaticamente ampliato il campo delle ricerche su queste vicende storiche concentrando la sua attenzione finalmente anche sul ruolo ricoperto dalle figure femminili coinvolte in varia misura nell’esperienza dei militari deportati, affinché anche questa componente della memoria non andasse perduta.
Nel programma di Stoccolma, approvato nel dicembre 2009, sul diritto di asilo, si manifesta l’Europa dei diritti, della giustizia, della solidarietà, come è affermato nel libro in esame. Si tratta di un’Europa che si propone come «uno spazio di valori condivisi […] incompatibili con i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra», dove, «in una prospettiva di riconciliazione, la memoria di tali crimini deve essere una memoria collettiva e condivisa» e che forse ci offre una apertura e la possibilità di un superamento nella convinzione enunciata da Silvia che «La Memoria serve a rafforzare l’identità, la Storia serve a dare un’interpretazione critica dei fatti. Hanno però in comune il fatto che entrambe allontanano l’oblio. La sfida sta in questo: approfittare dell’indagine storica per dare alla memoria una dimensione di giustizia, il significato di un’assunzione di responsabilità». Solo così il percorso di riconciliazione si mostra non solo praticabile, ma atto dovuto alla memoria degli orrori del passato.
CONCLUSIONI
Termino questa conversazione con la messa in evidenza di un brano che mi ha molto colpito per la sua innegabile capacità divinatoria. Alla fine della Guerra Fredda argomenta Silvia, «l’idea di un’Europa unita, capace di essere tale nei suoi storici confini, faceva nascere la speranza di nuove opportunità per le giovani generazioni più aperte al dialogo, alla globalizzazione: proprio quest’ultima in poco tempo avrebbe cambiato la visione del mondo.
Così non sarà.
Si concludeva la contrapposizione Est-Ovest, ma sarebbero emerse nuove e più complesse questioni, che avrebbero messo in pericolo la pace tra i popoli. Era del tutto evidente che, come per le repubbliche della ex Unione Sovietica, il nazionalismo, il regionalismo storico ed economico, l’appartenenza a questa o a quella etnia, a una confessione religiosa o l’identificarsi con le vicende di una popolazione, con i suoi recenti passati storici, sarebbero state le coordinate sulle quali muovere piccoli eserciti in difesa di piccoli interessi. … La pace universale torna ad essere un valore da conquistare giorno dopo giorno, il Ricordo e la Memoria hanno bisogno di essere sempre più collegati al presente per sconfiggere la logica delle nuove barriere strutturali e mentali».
Mi pare che su queste affermazioni sia obbligo di ciascun lettore impostare una seria riflessione.
Francesco Venuti, nato a Messina il 1° gennaio 1946, residente a Prato, si è laureato nel 1971 presso l’Università di Firenze con una tesi di storia romana. Dal 1971 al 2006 ha insegnato Italiano e Latino nelle scuole superiori di Prato. Negli anni ’70 è stato membro della Commissione cultura della Federazione comunista pratese e membro del Consiglio di Circolo della Casa del Popolo di Coiano, oltre che segretario della sezione scuola del P.C.I. di Prato. Attualmente svolge attività di volontariato presso l’A.N.C.R. di Prato (bibliotecario e collaboratore di una rivista periodica Ultime Voci) ed è dirigente provinciale dell’A.N.P.I., occupandosi di ricerche sull’antifascismo locale.